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CIBO E SESSO... bulimia alimentare e bulimia sessuale

testimonianza e riflessione

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Rimini, Emilia Romagna, Italy
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L'esperienza di Vere

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AVEVO IN TESTA SOLO IL CIBO E IL SESSO
Cibo e sesso, a qualunque ora del giorno e della notte, per colmare l’enorme abisso di vuoto della mia esistenza. Di queste cose, cibo che non nutre e sesso che non da gioia, era fatta la mia vita, prima che dicessi basta, prima che voltassi pagina, per sempre. Da piccola, quando i miei genitori litigavano, si mettevano le mani addosso, io mi rifugiavo nella dispensa, tra le patatine e i biscotti al cioccolato. Ingoiavo, senza gusto, un boccone dietro l’altro, sperando che il cibo mi riempisse tutta, foderasse le mie orecchie, allontanasse da me le urla e il rumore degli schiaffi. Mangiando sono diventata grande, e grande è diventato il mio buco di dolore, i denti ben piantati nel mio stomaco. A 18 anni, due anni dopo il divorzio dei miei genitori, mi sentivo talmente sola e disperata da averne abbastanza, dei miei, del mondo, persino del cibo. La mia fase anoressica durò solo qualche mese, digiuni forzati, scuse ben confezionate, la fame che mi divorava, poi il senso di vuoto ebbe il sopravvento e ricominciai a mangiare, tutto quello che mi capitava, rabbiosa e frustrata. La bulimia era la mia voglia di ingoiare il mondo, di mangiarmelo intero, briciole comprese. Mangiavo tutto, cibi surgelati, carne cruda, mangiavo senza masticare, mangiavo senza amore, mangiavo per morire. Giusto il tempo di sentirmi male, di provare schifo per me stessa, di darla vinta al senso di colpa, e correvo a vomitare tutto. Nella mia testa non c’era altro che il cibo, come fare a procurarmelo, come ingoiarlo, quanto tempo tenerlo dentro, come buttarlo fuori. Uscivo di casa la mattina, mi ingozzavo di cornetti al primo bar che trovavo, e poi via di corsa verso l’ufficio, diretta in bagno, le mani appoggiate alla tazza, le ginocchia sul pavimento freddo, a svuotare quello che era stato riempito. Dietro la maschera di ragazza allegra e spensierata c’era tanto di quel dolore da distruggere il mondo. Quando andavo a cena da qualche amica, e passavo il dopocena chiusa in bagno, tutti sapevano cosa succedeva, ma nessuno sapeva davvero come aiutarmi. Io, per prima, non volevo essere salvata. “So cosa faccio” mi dicevo “ho il pieno controllo del mio corpo”. Non era vero, era tutto il contrario: il mio corpo era il predatore, e io la preda indifesa, ma chi poteva immaginarlo, allora? Bugie, una dopo l’altra, raccontate a me stessa e agli altri, per farmi del male, per non essere più niente, per scomparire. Dalla bulimia alimentare a quella sessuale il passo fu brevissimo: mangiare il mondo, questo era il mio scopo, uomini compresi. A 19 anni persi la verginità con un ragazzo a cui non piacevo, di cui non mi importava niente. Odiavo gli uomini, perché li associavo alla figura di mio padre: gli uomini erano quelli che usano le mani per picchiare, che non danno amore, che dispensano lividi come fossero carezze. Li odiavo e ci andavo a letto, ancora una volta per farmi del male, per provare schifo e senso di colpa, per sentirmi piena e, subito dopo, svuotata di tutto. Il giorno indossavo la maschera, sorridevo e scherzavo, e la sera correvo in discoteca, a cercare compagnia. Dicevo a me stessa che avevo bisogno di affetto, che non volevo star da sola, che volevo innamorarmi ed essere amata. Ancora bugie, perché io di amare non ero capace. Volevo solo cercare altrove il mio baricentro, perché il mio non funzionava, era come una bussola rotta. Se un uomo si innamorava di me lo trattavo malissimo, lo umiliavo fino alle lacrime. “Mi fai schifo, gli dicevo, “non ti amerò mai”. Non usavo mai precauzioni, perché l’adrenalina era parte del gioco d’azzardo. Me ne stavo sdraiata, il fiato dello sconosciuto di turno sul collo, il cuore che batteva impazzito, il corpo che non sentiva niente che non fosse disprezzo. Subito dopo correvo ad abbuffarmi di cibo e a vomitare, e così via, un giorno dopo l’altro, in un copione che si scriveva da solo. Cibo e sesso: le due droghe, da consumare in fretta, al buio, e che altrettanto in fretta mi consumavamo. Rimasi anche in cinta, e abortii, senza pensarci due volte. La mia vita era il caos, un puzzle di pezzi scombinati, parti mancanti, buchi neri, e di certo non c’era posto per un bambino. Per due volte mi fidanzai, per dare a me stessa l’illusione della normalità, ed entrambe le volte tradii senza neanche un senso di colpa. La realtà che mi circondava mi sembrava talmente brutta da doverla camuffare, chiamando ogni cosa con un altro nome, che fosse il suo contrario: e allora l’odio diventava amore, il disprezzo veniva mascherato da affetto. Poi, a 23 anni, il crollo. La marea si ritirò, portando alla luce tutto il marcio che tenevo dentro: gli uomini che non avevo amato, il sesso che non era amore, il cibo che non era vita, la frenesia, che non era mai gioia. Mia madre vide in televisione una intervista a ChiaraSole Ciavatta, fondatrice di MondoSole, un centro per la cura dei disturbi alimentari, e allora decisi di darmi una possibilità. Da un giorno all’altro lasciai tutto, la mia città, il mio lavoro, le mie amicizie, e mi trasferii a Rimini, nel centro. Per la prima volta nella mia vita parlai con qualcuno che capiva i miei stati d’animo, con qualcuno che il mio inferno lo aveva attraversato, che sapeva quanto laceranti fossero certe ferite. A poco a poco, un giorno dopo l’altro, imparai ad analizzare la mia vita, a capire il perché di tutto l’odio che mi portavo dentro, a sezionare e ricomporre per il verso giusto ogni pezzo della mia esistenza. Capii quanto i litigi e le botte fra i miei genitori mi avessero traumatizzata, rendendomi insicura e fragile, capii quanto sbagliato fosse il mio rapporto col cibo, che non era nutrimento ma arma affilata, per punire e punirmi. Capii infine, quanto la mia ricerca di sesso fosse dettata da un profondo squilibrio interiore, dall’incapacità di bastare a me stessa, di star bene da sola, di essere io, il baricentro della mia vita. Presi un appartamento insieme ad altre ragazze che frequentavano il centro, trovai un nuovo lavoro come commessa, mi iscrissi all’università; insomma, ricominciai a vivere, a poco a poco. Un punto fondamentale del percorso di guarigione è il reinserimento nella quotidianità, che deve avvenire da subito. Perciò non mi chiusi in me stessa e non mi chiusi in casa, ma cercai subito di ritrovare un nuovo contatto con la realtà, di sgretolare tutte le barriere che mi ero costruita negli anni. Fu difficilissimo, perché negarlo? Dovevo ricominciare tutto daccapo, come se avessi tre anni, come se fossi appena venuta al mondo. Imparai a nutrirmi, prima di ogni altra cosa, a consumare i pasti insieme agli altri, a trattenere il cibo, a masticarlo, a sentirne il sapore, a considerarlo parte della vita, ad amarlo. Negli anni avevo associato certi cibi, pane e pasta soprattutto, al senso di pienezza, al senso di colpa, all’angoscia che precedeva il vomito: lì al centro imparai a superare queste paure, a mangiare la pasta, una forchettata alla volta, prima con timore, come davanti ad un nemico potente, poi con il sorriso di una vittoria. La bulimia sessuale fu la più difficile da sconfiggere. Mi ci vollero anni, per capire che potevo stare bene con me stessa, che il sesso con sconosciuti non ha niente a che fare con il bisogno di affetto, men che meno con l’amore. Ci furono delle ricadute, ma al centro mi insegnarono a vederle per quello che erano: opportunità per guardarmi dentro ed imparare dai miei errori, seconde, terze e quarte possibilità, che la vita mi offriva, per rialzarmi e andare avanti. Due anni fa ho conosciuto un ragazzo, mi sono innamorata, gli ho raccontato di me, del centro, del percorso di guarigione, e lui ha saputo capirmi. Quando l’ho incontrato non mi ero ancora lasciata alle spalle il peggio delle mie dipendenze, ma ci stavo lavorando, demolendo e ricostruendo, un mattoncino alla volta. Oggi, se faccio l’amore, se mangio un piatto di pasta, se bacio delle labbra, di tutte queste cose riesco a sentire il sapore. E finalmente sono serena. A cura di Carmen Scotti

Intervista a Verena (MondoSole) su TuStyle - Mondadori
7 Giugno 2011 - Settimana n. 23
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TuStyle

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Riflessione ideale anoressico

ana dca ti divora da dentro

Si è portati a pensare che l’anoressia sia solo restrizione assoluta alimentare.
Così come si pensa che una persona ammalata di anoressia sia solo una persona di pochi chilogrammi.
A me sembra decisamente riduttivo!
E’ vero che molte persone arrivano a pesare pochi chili, ma quelle stesse persone quando hanno cominciato a variare la loro alimentazione pesavano diversamente e non erano forse comunque anoressiche?
Il vocabolario descrive l’anoressia mentale come sindrome nevrotica caratterizzata dal rifiuto sistematico del cibo e questa è l’idea comune delle persone, ma assolutamente riduttiva e incompleta del dramma che si vive.
L’anoressia è una forma mentis.
Quando io ero anoressica ho vissuto brevi periodi di digiuno. Ricordo le mie giornate profondamente ossessive. Ogni cosa aveva orari. Il mio ideale di perfezione era assolutamente surreale. A scuola dovevo avere tutti 11: un 9 era un fallimento.
I cibi erano accuratamente selezionati. Gli affetti dovevano essere controllati. Ogni cosa doveva essere sotto il mio controllo e se non lo era vivevo frustrazioni dolorose. Non sentivo la stanchezza grazie all’iperattività e ai nervi anoressici che mi tenevano su in una forma di euforia onnipotente.
Se qualcuno mi diceva che qualcosa non andava io non gli davo retta, io sapevo cosa dovevo fare.
Io ero anoressica in tutto, in tutte le sfere della vita.
Avevo grandi problemi relazionali con le compagne di scuola.

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