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Di seguito ho scritto un riassunto del dolore racchiuso in 14 anni di vita. Quella Sofferenza oggi si è trasformato in ricchezza.ChiaraSole 

Avevo 11 anni quando mi sono ammalata in modo più evidente. Ero in quinta elementare. All’epoca mi sentivo infinitamente inadeguata di fronte ad ogni singola situazione. Sentivo che non ero mai abbastanza. Mi sentivo inadatta. Non capita. Mi sentivo ingombrante e così ho cominciato a saltare i pasti a scuola. Era la quinta elementare, anno in cui è arrivato il primo ciclo mestruale e con esso il cambiamento delle mie forme. Ho compreso molto dopo che faticavo ad accettare quel corpo che aumentava, che diventava più femminile.
Ero una bambina in carne e avevo sempre avuto un rapporto particolare con il cibo.
In una rielaborazione successiva, mi sono resa conto che fin da piccola il cibo è stato per me un vero e proprio compagno, quasi un baby-sitter. A posteriori posso dire che all’età di sei anni, davanti ai tanto amati cartoni animati avevo delle vere e proprie abbuffate di binge (abbuffate senza vomito) che non vivevo con dolore, ma solo con piacere. Ovviamente a quell’età manifestavo in questo modo già un disagio in risposta a dinamiche familiari complesse.
Quel senso di inadeguatezza si è trasformato in una prigione che io credevo fosse controllo, in realtà era qualcos’altro a controllare me e si chiamava anoressia.
Inizialmente tentavo di controllare il cibo, non ci riuscivo, ma poi i miei schemi hanno avuto la meglio su tutto e quello che io credevo fosse forza di volontà ferrea in realtà non era altro che un mostro violento che non dava spazio, apparentemente, alle emozioni. Ogni volta che mangiavo un piccolissimo boccone in più rispetto a quello che io ritenevo consentito, sentivo un senso di colpa tale che avrei preferito uccidermi.
con il lavoro fatto su me stessa ho compreso che quel cibo significava avere in me più vita, così come lo stesso significato ce l’aveva prendere peso.
Dicevo che volevo dimagrire, che era quella la cosa importante. DOVEVO DIMAGRIRE! Era una questione di vita e di morte. La mia vita dipendeva da questo: da come sentivo la pancia gonfia o piatta. Da come mi vedevo (e la visione di me era distorta).
E’ stato difficile comprendere che quel voler DIMAGRIRE non era un termine adatto… perché una signora che va dal dietologo che vuole perdere 3/4 kg vuole dimagrire, IO VOLEVO CONSUMARMI, io volevo morire.- Io volevo sradicare quel senso di inadeguatezza dato da ciò che ancora ai tempi non sapevo. Ogni centimetro di me fatto di carne aveva su scritto vita e io lo dovevo togliere, in questo modo inconsapevolmente avevo l’illusione di non soffrire più.
Negli ultimi anni ho riletto vecchi diari in cui c’è un'unica ripetizione ed è proprio quella che ho appena detto: voglio morire.
Io cercavo di azzerare tutto, di controllare tutto.
La mia vita era fatta di programmi: mi alzavo prima di andare a scuola per correre e continuavo quando tornavo.
Mangiavo cibi tristi e privi di sapore. La vita non doveva avere sapore perché ogni sapore era un’emozione nuova per me ingestibile.
Per questo ogni cosa era calcolata e programmata. Se qualcosa scombinava i miei programmi, io andavo letteralmente in panico. Gli imprevisti erano veri nemici!
Avevo attacchi di panico!
Ero ossessionata da un mio personale ideale di perfezione (che non esiste nella realtà). A scuola dovevo avere tutti 11.
Ogni cosa doveva essere come volevo io e basta.
Non erano ammessi errori. Uno sbaglio o comunque ciò che io reputavo tale, mi comportava un senso di colpa pazzesco. A scuola vivevo grandi ansie e puntualmente facevo ogni compito in classe piangendo dall’inizio alla fine.
Ero molto nervosa.. e avevo crisi di nervi incredibili.
Mi sono ammalata intorno al1985 e in quegli anni è stato molto difficile comprendere cosa effettivamente avessi. Si pensa che l’anoressia sia solamente restrizione assoluta del cibo, ma in realtà non è così. Come ho spiegato fino ad ora l’anoressia è tante cose. E questo va dal cibo al modo di vivere i rapporti.
Io mi sentivo forte. Avevo dei momenti in cui ero giù di morale, ma che superavo, o meglio, credevo di superare, grazie ai miei schemi malati che mi proteggevano da un dolore che non volevo né sentire né riconoscere.
A 12 anni c’è stato il primo ricovero d’urgenza per una gastrite acuta, questo era l’unico dolore che sentivo.

Ma quell’infinito senso di apparente potenza non poteva essere destinato a durare e il mondo mi è crollato addosso tutto in una volta. Un giorno dopo la mia consueta seduta in palestra tra corsa, macchine e sauna avevo la mia solita razione auto imposta di tre biscotti di soia e in un lampo, senza neanche accorgermene, ho terminato l’intero pacco.
Non ho sentito nessun sapore. Ho mangiato con una violenza incredibile.
Ho visto il buio.
Non ero io. Non ho capito più niente. Non capivo cosa fosse successo. So solo che in quel momento avrei voluto farla finita. Non sapevo cosa fare.
Da quel giorno è cominciato quello che per me è stato il vero inferno!

Inizialmente le abbuffate erano distanti tra loro e per recuperare il tanto cibo che ingerivo mi sottoponevo ad una restrizione alimentare incredibile.
Lo sport compulsivo continuava.
Mangiavo, correvo, digiunavo.
Le ossessioni aumentavano sempre più e io diventavo ogni giorno più irascibile e intrattabile.
Già da prima mi ero molto isolata e quelle che erano le mie amiche di scuola erano state da me allontanate. Con l’inizio del binge il senso di vergogna è diventato tale da non riuscire a mostrarmi.
Soprattutto i primi anni della mia malattia è stata caratterizzata da una sorta di divisa. Il mio abbigliamento doveva coprire tutte le forme. Le mie maglie arrivavano fino alle ginocchia. In questo modo avevo l’illusione mentale che le persone non mi vedessero.
Questi indumenti dovevano avere caratteristiche precise come ad esempio, scivolare in modo che non potessero sottolineare nulla di ciò che c’era sotto. Qualunque forma era bandita. Sono stati anni durante i quali non riuscivo a guardare negli occhi le persone. Mi vergognavo a fare qualunque cosa, anche a chiedere un caffè. Camminavo per strada pensando che tutti guardavano me. In questo modo proiettavo sugli altri il mio dolore.

Nel frattempo, qualunque peso io avessi mi vedevo sempre più enorme. Cercavo lo specchio come in attesa di una conferma. Speravo che Lui amico e nemico specchio mi dicesse che IO ANDAVO BENE COSI’ COM’ERO, ma capitava che più io ci stavo davanti, più le mie forme aumentavano. Un effetto ottico complesso da descrivere. Il mio corpo aumentava sotto i miei occhi, sentivo le cosce letteralmente bruciare. Erano lacrime a fiumi. Era un dolore infernale. Io dicevo SONO GRASSA, faccio schifo, non valgo nulla. Quello specchio, le vetrine per strada, qualunque superficie riflettente erano giudici inconsapevoli. Questo sentire è valso per tutto il periodo della patologia a periodi più forte a periodi più debole. Specchi, vestiti, bilance ogni cosa è stata abusata.
Ho impiegato tempo e tanto lavoro interiore per comprendere il significato di quell’infinita visione distorta di me: io non riuscivo a vedere, comprendere e accettare le vere sofferenze nascoste sotto i vari sintomi della malattia. Ma quel dolore era infinito, immenso e da qualche parte dovevo scaraventarlo: ebbene la vittima è stato proprio il mio corpo, essendo il dolore immenso, non potevo far altro che vedermi IMMENSA!

Una vita fatta di rabbia, senso di colpa e tanto vuoto nero.
Nel frattempo anche le conflittualità a casa erano sempre maggiori. Nel periodo dell’anoressia no, ma poi ogni tipo di rapporto è peggiorato.
Quella restrizione, quella perfezione tra virgolette non poteva durare e io sono scoppiata.
E in me cresceva sempre più rabbia, rancore, ODIO!… un sentire che non riuscivo ad esprimere in nessun modo. L’unica cosa era farmi male. I miei sintomi mi hanno protetta a quell’età da quel sentire così doloroso e devastante. Era una sofferenza troppo grande per poter essere affrontata e l’anestesia data dalla restrizione prima e dall’eccesso poi mi hanno permesso di continuare a vivere.
Ovviamente ho cominciato a prendere peso e così ancora da un dietologo. In quel periodo ho scoperto il vomito quasi spontaneamente che nel tempo ha devastato il mio organismo.

Ho rimpianto presto quel misero pacco di biscotti. La compulsione che mi portava ad avere le abbuffate (a divorare le emozioni) era una forza potentissima. Qualcosa che è davvero difficile da spiegare a parole. Non si tratta di una scelta. In quel momento non si vede nulla. Non si sente niente. Non esiste nessuno. Può morire una persona cara e non ci si accorge di cosa sta accadendo. Non esistono pensieri. Si è disposti a qualunque cosa per raggiungere quella droga chiamata cibo. E in una crisi di binge e bulimia, quella droga non basta mai. Ancora, ancora e ancora! Quasi a voler riempire un vuoto senza fine. C’è solo buio. Se non riuscivo a mangiare quando sentivo la compulsione avevo delle vere e proprie crisi di astinenza arrivando a farmi del male in ogni modo… dal bruciarmi allo strapparmi la carne sotto ai piedi a mangiarmi carne e unghie dei piedi e delle mani. Dovevo mangiare, dovevo fare e chi si metteva tra me e il cibo io in qualche modo lo eliminavo. Non esiste più dignità. Si mangia qualunque cosa… dal cibo surgelato, nelle pattumiere. Quell’impulso è troppo violento e ci si muove come un automa. Avevo abbuffate ovunque… non era possibile programmare quel momento così vorace, così potente. NON ESISTEVA FORZA DI VOLONTA’!!!
Durante l’attacco bulimico c’è un grande punto di godimento che a volte può portare addirittura l’orgasmo, ma una cosa che ricordo molto bene è anche il dopo.
La disperazione che si sente quando ci si ritrova per terra, in bagno… prive di forza. Ricordo il senso di vuoto. Ricordo l’immagine della cucina o del luogo di turno in cui mi trovavo piena di rimasugli di cibo ovunque, carte sparse. Sporco dappertutto.
Quel vuoto senza fine, quella solitudine.
In questo momento mentre scrivo mi viene in mente un immagine: ero a Perugia per una cura e avevo un mio appartamento situato sopra un fast food e a un supermercato, quindi non esattamente il posto migliore. L’appartamento era piccolino, la cucina talmente piena di carte, sportine da non riuscire a camminare. C’era appiccicaticcio ovunque e io in bagno piena di dolore, stesa per terra, sapore di sangue in bocca. Ero lì sola.
Ricordo che mi sentivo mancare, mi sono messa a parlare a voce alta… speravo in un attacco di cuore. Speravo che quell’inferno finisse, allo stesso tempo mi chiedevo come potevo fare a spiegare cosa cavolo stavo vivendo. Come cavolo si spiega quel meccanismo, quel dolore, quella disperazione?!

Andando avanti le crisi bulimiche sono sempre più vicine fino a quello che noi chiamiamo il giro… cioè crisi continue ininterrottamente.
Sono arrivata a mangiare 20 chili di pasta in un giorno e vomitavo una media di 40 volte.
Ho oscillato continuamente dai 36 ai 90 kg. 5 anni di amenorrea più oltre 50 giorni di dismenorrea. Correvo una media di 20 km al giorno. Osteoporosi. Danni ai denti, tanto da doverne rifare diversi. Danni allo stomaco. Ho massacrato talmente tanto il mio organismo che negli ultimi anni della patologia, per un blocco metabolico, ho preso 30 kg in un mese pur avendo un’alimentazione regolare. Svariate problematiche oggi risolte.

Ma la parte del sintomo alimentare è quella evidente. Io ero malata in tutto. In casa la disperazione si tagliava con il coltello, per rimanere in argomento e le conflittualità nel tempo sono diventate ingestibili. Eravamo una famiglia distrutta!

Nei rapporti ero incredibilmente contraddittoria. Vivevo le relazioni con un atteggiamento morboso come a voler divorare le persone. Cercavo, volevo e facevo di tutto per averlo, un rapporto duale di fusione durante il quale volevo inglobare l’altro non permettendogli di avere una sua vita al di là di me. Erano per me delle vere dipendenze affettive.
I rapporti sentimentali che ho avuto sono stati spesso una grande illusione sulla malattia. A volte ho pensato che potessero essere il veicolo della risoluzione di tutto e a volte ci ho anche creduto. Il punto è che spostavo il baricentro su un'altra persona e mi illudevo che in questo modo le cose andassero meglio. Per qualche tempo è stata un illusione anche apparentemente credibile. Ma il punto di benessere non poteva essere cercato al di fuori di me, si trovava dentro me! Le risposte alle mie domande non potevano certo darmele un fidanzato. I Infatti dopo periodi di apparente benessere, c’erano sempre grandi ricadute, e non solo alimentari, pregne di dolore e sofferenza tanto per me quanto per la persona a me accanto.

A periodi mi sono isolata e infatti ho perso tutte le mie amicizie, altre le ho perse per i miei comportamenti assolutamente incomprensibili.
Nel mio isolamento, a periodi, ho cercato di uscire, di mischiarmi insieme agli altri, ma era difficile… non riuscivo a rapportarmi con il mondo e così indossavo continuamente delle maschere. Anche per questo correlato alla dipendenza alimentare ho avuto problemi legati all’alcool e alle canne. Mi sono messa in situazioni pericolose subendone le conseguenze in quello stato di torpore, purtroppo è facile trovare persone che se ne approfittano e così alle cause originarie della malattia si sono sommati nuovi dolori emersi durante i 14 anni.

Durante tutti gli anni di malattia la mia famiglia ed io abbiamo cercato svariati tipi di aiuti e ho viaggiato tanto per questo motivo. Sono stata ricoverata. Ho raggiunto note figure terapeutiche in giro per l’Italia. Si è sempre tentato da un certo punto in poi di trovare la strada. Non sempre ero convinta di volerne uscire nonostante il grande dolore e questo avviene per tanti motivi… uno di questi è che la malattia mi dava un’identità. Io non avevo una mia individualità. La malattia me ne dava una!

Soprattutto mia madre, mio fratello e poi mia zia hanno cercato di aiutarmi… ma non potevano avere un buon esito.
Queste patologie riguardano anche la famiglia. Il nucleo familiare è importante, può dare sostegno, ma non può aiutare in termini di cura.
Un problema psicologico così serio deve essere preso in carico da chi ha le competenze e gli strumenti per trattarlo e in più da chi non è emotivamente coinvolto.

Come dicevo prima questa malattia è fatta di sensi di colpa ed è facile che all’interno di una famiglia ammalata di anoressia bulimia, nei momenti di disperazione, volino parole in più dandosi reciprocamente la colpa di questo o di quello, a noi è successo. Non solo, una cosa su cui non sono affatto d’accordo, è la sbagliata informazione che si fa a proposito di queste patologie. Non appena se ne sente parlare si additano i genitori e più spesso la madre come un essere immondo e questo non aiuta nessuno e soprattutto non cura.

Io ero molto arrabbiata con i miei familiari, il conflitto era davvero forte nei loro confronti. Le cause della mia malattia fanno principalmente capo a dinamiche familiari e non a colpe.
Oggi ho compreso una cosa che dico sempre. Siamo tutti figli di figli di figli di figli.
I genitori non nascono tali, ma prima di tutto nascono figli e ognuno vive in casa propria le dinamiche della sua famiglia di origine. Ebbene quelle dinamiche vengono ovviamente portate nella nuova famiglia che si crea e ogni singolo individuo che nasce avrà un suo modo di codificarle.

Ho trovato la risposta di cura adatta alla mia natura è ho compreso il perché di tanta mia distruttività, accettando che il TUTTO E SUBITO NON ESISTE.
Ho compreso perché ho tentato di togliermi la vita.
Ho compreso il perché di tanto odio.
E le cause erano davvero tante. Ho deciso di andare a fondo e dietro ai miei sintomi, ma sempre chiedendo aiuto. Perché troppe volte mi sono ritrovata tra me e me facendomi proprio questa stessa domanda: perché A ME?
Ma non è sufficiente comprendere le cause, da lì poi è necessario procedere il lavoro su se stessi per rielaborarle, metabolizzarle, digerirle e in base a quelle costruirsi la vita.
Pian piano… arriva il concedersi di vivere le emozioni. E l’inserirsi nella vita di tutti.

Chi mi conosce da sempre mi chiede perché ho deciso di rimanere nel sociale dopo tanto dolore.
La mia risposta è che ho avuto la fortuna non solo di avere una conoscenza diretta di queste malattie: anoressia, binge, bulimia, nes (abbuffate notturne in uno stato di non consapevolezza, purtroppo non se ne parla mai) depressione, alcool ecc, ma anche di conoscere i pregi e i difetti di tanti metodi di cura, dai ricoveri alle terapie di ogni genere, questo principalmente mi ha portato a decidere di rimanere nel sociale per mettere la mia esperienza a disposizione di chi soffre di anoressia e bulimia.
Quando stavo male, desideravo profondamente, avere davanti a me una persona che mi prendesse sul serio per quello che stavo dicendo, i significati profondi di certe espressioni. Mi accorgevo che all’orecchio di chi non viveva in quell’incubo potevano sembrare cose folli, ma io le sentivo e avrei dato qualunque cosa per avere dall’altra parte qualcuno in grado di dirmi TI CAPISCO! Ma non di dirlo a parole, avevo bisogno di sentirlo!
Non da una persona qualunque, ma da chi quel mostro l’aveva conosciuto e che ormai non faceva più parte di lei/lui.
Rimanere nel sociale non era una scelta prestabilita. E’ venuta nel tempo quasi naturalmente.
Da diversi anni trascorro le mie giornate con le persone che si rivolgono a noi, vivo con loro la quotidianità a MondoSole con grande gioia ed entusiasmo.
Dal mio punto di vista queste patologie sono ancor oggi molto sottovalutate e non a ragione. Probabilmente ancora non si è compreso la potenza di questi mali. Non si è capito quanto la malattia riesca ad essere subdola e paradossale, colpisce in prima persona chi ha il sintomo evidente, ma riguarda tutte le persone che ruotano intorno ad essa. Si tratta di una lotta quotidiana, mai da fare da soli, tutte queste persone vanno aiutate. Arrivare ad un punto di benessere richiede impegno personale sia nel percorso introspettivo che in quello pratico, questo impegno va ricercato, sostenuto, incoraggiato insieme agli operatori, perché chi soffre di questi mali non è un extratterestre non in grado di capire, ma una persona piena di sofferenza che ha bisogno di trovare la sua personale identità e individualità. Ha bisogno di imparare a sentirsi. Ha bisogno di essere aiutato ad andare oltre al tutto e subito, ad imparare ad andare oltre agli entusiasmi iniziali nelle cose e procedere con la costanza. Chi sta male non va plasmato o omologato, ma aiutato a capire chi è profondamente e le guide, cioè gli operatori, devono, per questo, essere presenti in ogni sfera della vita giorno per giorno.

ChiaraSole Ciavatta
fondatrice MondoSole

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