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Riflessione sugli stereotipi dei DCA

sintomi alimentari (dca)

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Riflessione sui Sintomi Alimentari; stereotipi della malattia

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 Odio e AmoreAnoressia e bulimia sono disturbi che c’entrano poco con corpo, chili e voglia di dimagrire, perché esprimono gravi disagi incompresi che noi persone malate non riusciamo a capire e affrontare, e così il sintomo diventa protezione e pretesto per spostare l’attenzione del dolore che non vogliamo sentire sul corpo, oggetto tangibile che si ha sempre con sé, il più facile da usare, plasmare, controllare, distruggere. Passiamo tutta la vita a dieta, ad abbuffarci, a vomitare, a digiunare, in questo vortice di autodistruzione, privandoci di ciò che desideriamo veramente.

Il profondo senso di vuoto esistenziale e d’identità che sentiamo ci spingono alla ricerca continua di riempitivi che plachino questa sensazione e il cibo (o il suo pensiero costante) diventa l’unico oggetto desiderato. Ci sentiamo divise a metà, tra parte razionale ed emotiva, e il sintomo è ciò che ci identifica, l’unica certezza di un mondo reale da cui si fugge per la paura di affrontare le sue difficoltà e le emozioni che produce, per l’intollerabilità ad accogliere le emozioni invece di gestirle. Per questo ci creiamo un rifugio, un mondo parallelo idealizzato e modellato dove tutto è illusoriamente possibile e controllabile, una realtà asettica e anestetizzata, priva di emozioni positive e negative. Pensiamo di poter controllare tutto e ci costruiamo binari precisi da seguire scandendo la quotidianità in una routine che impone riti e schemi che danno sicurezza, riempiendola di pensieri ossessivi che fungono da protezione perché distraggono dai veri dolori che premono. Il sintomo è perciò la legge a cui non poter dire di no, che dà ordine a una vita sregolata, priva di norme o regole contraddittorie. Funge da evitamento di tutte le paure e da esclusione sociale: poiché gli altri intimoriscono, tendiamo a chiuderci in barriere difensive dentro al nostro sintomo, ed esso stesso “giustifica” l’isolamento sociale, la mancanza di amicizie e relazioni affettive.

Questa cristallizzazione del tempo, la mancata presa coscienza di sé, costruzione di relazioni e responsabilità del ruolo che si ricopre nella società, genera un congelamento della crescita che ci fa rimanere bambine richiedendo costantemente di essere al centro dell’attenzione. Il sintomo e questa posizione di egocentrismo sono un messaggio cifrato rivolto a un genitore con cui non c’è comunicazione, il quale difficilmente riuscirà ad interpretarlo.

La concentrazione del pensiero sul corpo, sentire che cambia da un momento all’altro e il continuo pesarsi significa concedersi l’illusione di avere tutto sotto controllo. Attraverso il controllo del peso ci diamo inoltre un giudizio (sei brava/fai schifo) ed è un modo per concedersi il sintomo, perché anche se abbiamo raggiunto il numero tanto voluto, la malattia impone di andarne al di sotto, essere sempre al risparmio di chili, calorie, energia… In questo modo è il peso che mi controlla e non io che controllo il peso, poiché quel numero sulla bilancia, quei chilogrammi hanno un potere enorme sul mio umore, sulle mie relazioni, sul mio benessere, sulla mia autostima! E’ come se alla domanda “Quanto valgo io?” rispondessimo solo in funzione di quei x kg, che sono sempre troppi, “per questo io faccio schifo e non valgo niente”... Permettiamo così a quel pensiero di dominarci e distruggerci, di diventare l’unica cosa fondamentale, nel meccanismo dello spostamento di pensiero per concentrarsi su un unico oggetto (il corpo), invece che su tutti i grandi dolori che ci affliggono.

L’ideale di corpo anoressico con ossa che sporgono rappresenta uno scudo senza vita che impedisce di sentire, di esserci, di vivere. Il desiderio di sparire prende-perde forma in un NON-CORPO, svilendone la femminilità, ogni curva, ogni centimetro di pelle e carne che sia vita, donna, desiderio.

L’anoressia è quindi il tentativo impossibile di svuotare il corpo dalle pulsioni, da ogni forma di desiderio e piacere. La sensazione di essere già piene (di dolore) impedisce di far spazio per il cibo, poiché non c’é spazio dentro di sé per nient’altro. L’ideale di purezza è perseguito attraverso il desiderio isterico di rimanere insoddisfatta, di non godere. Ma i sensi di colpa pervadono perché il desiderio è interno, e il controllo non sembra mai abbastanza per dominare le proprie pulsioni.

La lunga restrizione porta all’aumento della spinta pulsionale, alla fame sia biologica che nervosa. Ma anche non sentire il sapore di ciò che si sta mangiando è come restringere mentalmente, per cercare di eludere il senso di colpa. E così la restrizione porta all’eccesso.

La bulimia è la ricerca compulsiva del piacere con la necessità poi di ripulirsi, di buttare via l’oggetto con cui si è goduto. L’abbuffata ha una funzione placante, anestetizza emozioni, pensieri e desideri e offre un’alternativa compensatoria al piacere sessuale attraverso però un godimento autistico, che non vuole l’altro. La bulimia offre il doppio godimento del tutto pieno dell’abbuffata e del tutto vuoto del seguente vomito, per sentirsi in bilancio a zero, come se non fosse successo niente, e poter trasgredire ancora.

La scelta dell’oggetto del sintomo non è quindi casuale: il CIBO é PIACERE, dà GODIMENTO. E’ la prima cosa-oggetto con cui si entra in contatto appena nati, la bocca è il primo luogo di incontro con l’altro ed è piacevole. Per l’anoressica-bulimica la restrizione e l’eccesso danno quindi vita alla messa in scena del conflitto tra piacere, cibo, corpo, dimensione familiare, affettiva e sessuale che riconducono al fatto di NON RIUSCIRE A CONCEDERSI IL PIACERE, insieme al SENSO DI COLPA per il solo fatto di avere pulsioni che spingono al desiderio.

Ma oltre al cibo la nostra vita è costellata da altre forme di schiavitù e ogni cosa può diventare sintomo-dipendenza: l’attività fisica, l’alcool, la droga, il sesso, le relazioni affettive, l’autolesionismo, lo studio, il lavoro, internet …

Spesso si passa da una dipendenza all’altra, si sposta l’oggetto sintomatico e magari si pensa anche di stare meglio, ma il dolore rimane nell’anima. La malattia può farci passare per limbi di non-vita e apatia quasi senza accorgersene, oppure per eccessi adrenalinici e di euforia totale, tutto nel tentativo di anestetizzarsi, di non sentire il vuoto che opprime da dentro, il dolore che spinge dal profondo!

Il sacrificio al sintomo è un vero e proprio lutto perché si rinuncia a un vero godimento, ma svuotandolo di significato e comprendendo la sua natura dentro di noi, si capisce che esso è stato un grande Amico perché ci ha protetto dalle dinamiche malate che ci hanno accompagnato fin dalla nascita e da qualcosa di più grande a cui probabilmente non saremmo sopravvissute, ma è anche un grande Nemico, perché se continuassimo a dargli ascolto, avrebbe il potere di distruggerci!

Una vita senza sintomi e veramente libera da ogni forma di dipendenza è qualcosa da conquistare giorno dopo giorno, per chi come noi ha sempre avuto bisogno di oggetti, sostanze, persone e schemi a cui aggrapparsi, ma con la scoperta di stampelle sane di cui avvalersi, la costruzione di relazioni umane vere e prendendosi cura di sé e del proprio benessere ogni giorno, una vita vera immersa nella realtà e piena di emozioni non solo è possibile, ma è anche una scoperta incredibile!

Vale G. MondoSole