ORA NE SONO CERTA: SI PUO’ GUARIRE DALL'ANORESSIA e dalla BULIMIA
I PROBLEMI CON IL CIBO, PER CHIARA, SONO INIZIATI A 6ANNI.
MANGIARE PER LEI ERA COME FICCARSI UN 
					COLTELLO NELLA PANCIA.
GUARITA, HA VOLUTO CONDIVIDERE IL SUO 
					CALVARIO. E HA FONDATO UN CENTRO DI CURA PER I DISTURBI 
					ALIMENTARI
					Cibo masticato, 
					sputato, desiderato, rifiutato, odiato. Intorno a tutto 
					questo ha ruotato gran parte della mia vita. Non c’era 
					altro. E quando diventò un fardello troppo grosso da 
					sopportare tentai il suicidio. 
Avevo 18 anni all’anagrafe, ma cento nel 
					cuore e nella testa. Aprii il mobiletto dei farmaci, ingoiai 
					tutto quello che trovai all’interno, poi, prima di perdere i 
					sensi affidai la mia sopravvivenza al destino. Chiamai il 
					mio fidanzato: “Sono Chiara, sto morendo”, dissi. Poi misi 
					giù. “Se arriverà in tempo vorrà dire che devo vivere” 
					pensai. Lui mi portò in ospedale e mi salvarono. Dopo 
					quell’episodio mi feci
					tatuare un sole sul 
					polso e modificai il mio nome in Chiara Sole, vestendolo 
					di speranza.
					
					
I miei problemi con 
					il cibo sono cominciati a 6 anni. Il medico di famiglia 
					aveva detto ai miei genitori che ero un po’ in sovrappeso, 
					così loro presero a controllare ogni cosa che mangiavo. Io 
					mi abbuffavo di nascosto, mandavo giù tutto quello che 
					trovavo e lo facevo con gioia gustandomi ogni boccone. Una 
					volta mi sorpresero a mangiare un uovo di cioccolata intero, 
					e me le diedero di "santa ragione". Pensavano che avrei 
					imparato la lezione, ma non fu così. In una famiglia in cui 
					ogni argomento ruotava intorno al cibo e l’ossessione per la 
					forma fisica assumeva sembianze quasi palpabili, non poteva 
					che andare a finire male. I problemi veri, quelli più 
					evidenti, cominciarono a 11 anni, con l’arrivo delle prime 
					mestruazioni. Era colpa mia se il mio corpo non era più 
					quello di una bambina, se diventavo più rotonda, se i miei 
					fianchi cominciavano ad ammorbidirsi, ad allargarsi? 
Pensavo alla disapprovazione dei miei 
					genitori, e 
					provavo impotenza 
					e disperazione. 
					L’unica cosa che potevo dare era dedicarmi ossessivamente 
					all’esercizio fisico e smettere di mangiare. Così cominciai 
					una dieta rigidissima, dividendo i cibi permessi da quelli 
					tabù. Passavo la giornata a correre, spesso saltavo i pasti 
					e ogni boccone in più rispetto a quanto pianificato mi 
					procurava un senso di colpa insopportabile. Dovevo dimagrire 
					a tutti i costi, la mia intera vita dipendeva solo dal 
					responso quotidiano della bilancia. Man mano che perdevo 
					peso, mi sentivo sempre più sicura di me stessa, convinta di 
					avere il totale controllo sul mio corpo. Non mi rendevo 
					conto che era la malattia a controllare me, i miei gesti le 
					mie giornate. Le persone normali vogliono dimagrire, io 
					volevo annullarmi, 
					scomparire. Il cibo era la vita, e io non ne volevo più 
					sapere di vivere. Mangiavo solo cibi senza sapore, sempre 
					gli stessi. Temevo di non riuscire a gestire un sapore 
					diverso, un’emozione nuova. Avevo paura che anche un 
					piccolissimo cambiamento nello schema del quotidiano avrebbe 
					potuto uccidermi. Cominciai ad avere anche crisi di panico.
All’improvviso mi sembrava di soffocare. 
					A 12 anni arrivò il primo ricovero d’urgenza, per una 
					gastrite acuta legata al mio folle regime alimentare. Io ero 
					diventata solo una spettatrice: l’anoressia stava 
					distruggendo il mio corpo e io mi ci ero accoccolata dentro. 
Un giorno, dopo l’allenamento quotidiano 
					di tre ore e la sauna, presi in mano il pacco di biscotti 
					alla soia che avevo in borsa. Di solito me ne concedevo tre, 
					ma quel giorno fui presa da un impeto incontrollabile e
					divorai tutto il 
					pacchetto. Un biscotto dietro l’altro, con le lacrime 
					agli occhi. 
Iniziò così un’altra fase, quella delle 
					abbuffate compulsive. Passai sa 
					
					Anestetizzata dal 
					dolore
Non ero più capace 
					di parlare con la gente, ne avevo paura. Immaginavo che 
					tutti ridessero di me. Morivo, un giorno dopo l’altro. 
					Eravamo soli, io e la mia rabbia, e non c’era posto per 
					nessuno. Quando avevo bisogno del cibo, me lo procuravo, 
					anche dalla pattumiera, se necessario, anche surgelato, 
					crudo. Se non trovavo niente da mangiare avevo terribili 
					crisi isteriche, mi strappavo la pelle dalle mani e dai 
					piedi. Il dolore fisico mi serviva per non sentire il vuoto 
					che mi portavo dentro. Più dolore c’era fuori, meno ne 
					sentivo nel cuore. Una volta mi trovavo a Perugia per una 
					terapia. Il mio appartamento era sopra a un fast food e io 
					non riuscivo a starne lontana. Mi ricordo lo sporco della 
					stanza, il cibo sparso dappertutto, il mio corpo steso sul 
					pavimento del bagno. Mi ricordo il sapore del sangue in 
					bocca, dopo il vomito, la solitudine e il mio desiderio di 
					avere un infarto, un ictus, o qualcosa che mi aiutasse ad 
					uscire da quell’inferno. Tornai a casa e presi 30 chili in 
					un mese, a causa di un blocco metabolico. La mia vita era
					distrutta e 
					anche quella della mia famiglia. Loro non sapevano come 
					aiutarmi e io non volevo essere aiutata. Ogni giorno il muro 
					che avevo davanti diventava sempre più alto. Fui ricoverata 
					decine di volte, provai terapie familiari e sedute di 
					psicoanalisi, cercai aiuto anche in Florida, ma non servì a 
					niente. Le poche storie d’amore che ebbi in quegli anni 
					erano anch’esse, a modo loro, delle dipendenze distruttive. 
					Mi illudevo che la persona che avevo accanto potesse darmi 
					l’antidoto alla morte. Ma non funzionava mai. Rimasi in 
					fondo al burrone ancora per quattro anni, poi attraverso una 
					terapia ininterrotta di tre anni, cominciai a guarire. Mi 
					risollevai perché ero stremata. Non riuscivo né a vivere né 
					a morire. Ma non riuscivo neanche più a sopportare il limbo, 
					perenne, in cui fluttuavo.
Sempre più a fondo. Mi resi conto che 
					gran parte dei miei disturbi nascevano da dinamiche 
					familiari complesse, problemi che i miei genitori si 
					portavano dietro da prima ancora di
					diventare genitori,
					e che erano piombati su di me da bambina, schiacciandomi 
					completamente. Firmai una tregua con il cibo. Imparai a 
					familiarizzare con i diversi sapori, a capire che il cibo è 
					un gesto di amore, che va assaporato con calma, come la 
					vita. Dopo la cura dallo psicologo, scelsi un ricovero in 
					una comunità terapeutica, perché avevo bisogno di re 
					imparare la quotidianità, di capire cosa significasse vivere 
					ogni giorno con altre persone, interagire con loro e 
					imparare a mettermi in gioco.
Appena uscita, scrissi un libro e 
					raccontai in un sito la mia esperienza. Volevo parlare del 
					mio dolore, adesso che me l’ero lasciato alle spalle, 
					aiutare chi stava soffrendo e non riusciva a risalire, 
					attraverso la testimonianza della mia malattia. Mi risposero 
					centinaia di persone e nel 2004 scelsi di creare “MondoSole”, 
					un centro per la cura dei
					disturbi alimentari.
Quand’ero anch’io nel baratro, desideravo 
					più di ogni altra cosa avere una persona che mi ascoltasse e 
					che guardandomi negli occhi mi dicesse: “Ti capisco, perché 
					io quel mostro l’ho portato dentro e ora l’ho scacciato per 
					sempre”. Io so riconoscere l’inferno negli occhi di chi 
					viene da me, e posso dirgli con certezza: “Se lo vuoi 
					veramente, puoi ricominciare a vivere”.
					































